Cass. pen., Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 20414

Tre soggetti erano imputati del reato di peculato, perché, in concorso fra loro, nelle qualità di medico chirurgo e di infermiere presso un presidio ospedaliero, avendo per ragioni di ufficio o di servizio la disponibilità del denaro versato dai pazienti per le visite e/o per le ecografie effettuate dal predetto medico con l’assistenza delle predette infermiere, se ne erano appropriati non versando le porzioni di somme dovute alla A.S.L. o comunque si erano appropriati delle ecografie realizzate con gli apparecchi in dotazione agli ambulatori in un numero rilevante di casi.

In particolare, ciò che si contestava agli imputati, in riferimento alla questione delle ecografie effettuate in regime di libera professione, era l’effettuazione di ecografie su regioni ulteriori rispetto al solo addome inferiore oggetto dell’autorizzazione rilasciata al medico e che, a fronte di plurime immagini ecografiche rinvenute, non era risultata registrata né la prestazione né, di conseguenza, il relativo compenso.

Ad avviso del G.U.P., gli inquirenti avrebbero proceduto in base ad un fraintendimento, avendo ritenuto configurarsi un illecito ogniqualvolta dall’esame delle cartelle, dalle testimonianze dei pazienti o dalle conversazioni intercettate, si era accertata l’effettuazione di una ecografia da parte del medico.

In realtà – ha sostenuto il G.U.P. – si doveva distinguere un esame ecografico vero e proprio, che ha esito in un dettagliato referto, da semplici scansioni ecografiche, effettuate nel corso di visite specialistiche, che vengono eseguite abitualmente a completamento di un esame obiettivo o per immediata risoluzione di dubbi diagnostici e diagnosi differenziali.

Erano queste ultime le scansioni ecografiche, che venivano effettuate dal medico quale conforto all’attività di diagnosi e che venivano inserite nelle relative cartelle cliniche, ancorché, appunto, non correlate dalla dovuta refertazione conclusiva. Ed era in questo quadro che andavano inserite anche le scansioni ecografiche effettuate dal medesimo nel corso della visita di un paziente anche su zone limitrofe all’addome inferiore, necessarie per una diagnosi più compiuta.

In ogni caso, secondo il G.U.P., non vi erano elementi sufficienti per dimostrare la sussistenza del dolo, sicché si imponeva il non luogo a procedere nei confronti dei tre imputati, perché il fatto non costituisce reato.

Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione il P.M.: il quale premette che, in sede di riscontro fra le ecografie dimostrate dal rinvenimento delle relative immagini e i dati degli incassi di cui alle prestazioni effettuate dal medico in regime libero-professionale, era emerso che per 54 delle 71 ecografie accertate nel periodo preso in considerazione vi era stato l’incasso del corrispettivo dovuto per la sola visita chirurgica, mentre nei rimanenti 17 casi non risultava incassato dall’azienda alcun corrispettivo.

Ne derivava, secondo il P.M., l’impossibilità di ritenere come compiute in buona fede le condotte appropriative poste in essere dagli imputati in relazione alle ecografie effettuate e non pagate all’azienda ospedaliera.

Ma la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso: “la prassi posta in essere dal medico era ampiamente giustificata, oltre ad essere, per altro, seguita, anche da suoi colleghi … è pacifico … che l’imputato era solito avvalersi di tale mezzo come semplice ausilio a fini diagnostici (‘terzo occhio’) e non come veri e propri esami da supportare con appositi referti”.