Cass. pen., Sez. IV, 6 marzo 2015, n. 9923

Le parti civili ricorrevano avverso la sentenza con cui il GUP aveva dichiarato non doversi procedere “per non avere commesso il fatto” nei confronti di M.G., T.A.G. e B.M., e “perché il fatto non costituisce reato” nei confronti di MA.Fa. e V.S., per tutti in relazione al reato di omicidio colposo, ai medesimi contestato, nella qualità di medici in servizio presso case di cura, per il decesso di D.M.

Secondo l’imputazione, ai medici si contestava di avere omesso per negligenza e imperizia di effettuare accertamenti diagnostici cardiologici quali radiografia toracica ed ecocardiogramma e, conseguentemente, di non avere prescritto adeguata terapia farmacologica per curare lo scompenso cardiaco di cui risultava affetto il D., che lo portava successivamente alla morte (insufficienza miocardica acuta da miocardite virale, riacutizzata, complicatasi in arresto cardiocircolatorio irreversibile).

Il giudice, valorizzando anche gli esiti delle diverse consulenze tecniche, fra cui l’autopsia e la perizia medico legale, riteneva di prosciogliere con la formula più ampia (non aver commesso il fatto) i sanitari T., B. e M., sulla base dell’assorbente rilievo che questi – i primi due – risultavano avere eseguito solo esami strumentali (doppler ed ecografia), da cui non erano emersi obiettivamente sintomi rilevanti della patologia (miocardite virale) che aveva condotto poi alla morte il paziente; il loro operato, quindi, non aveva avuto alcun ruolo nell’evento. Mentre il terzo, aveva parimenti eseguito un unico esame strumentale (ECG), rilevante ai fini del ricovero, ma non conducente ai fini dell’apprezzamento della patologia che si assumeva sottovalutata.

Quanto alla posizione degli altri due medici, il proscioglimento era con la formula “il fatto non costituisce reato”. Con riferimento al MA., il GUP si è soffermato sulla contrastata questione afferente la possibilità di diagnosticare la miocardite virale in atto e, richiamando gli esiti della consulenza svolta in sede di udienza preliminare e dei relativi approfondimenti, ha affermato che l’ipotesi più probabile e più coerente con i dati disponibili era che si era trattato di una cardiomiopatia dilatativa sfociata in uno sfiancamento del ventricolo sinistro nella fase terminale dello scompenso e non di cardiomegalia, come sostenuto dal consulente delle parti civili, caratterizzata da un sensibile aumento delle dimensioni del cuore, tempestivamente rilevabile dai sanitari mediante un esame radiologico del torace. L’insorgenza della cardiomiopatia dilatativa non è un’evoluzione obbligata della miocardite. Nel caso in esame, l’ipotesi della cardiomiopatia dilatativa aveva trovato conferma nella diagnosi anatomo patologica stilata in sede autoptica ed era compatibile con le necrosi focali multiple determinate da una miocardite virale insorta circa due mesi prima del decesso, a cui difficilmente può conseguire un’ipertrofia del miocardio di tipo compensatorio. Sulla questione del peso del cuore – secondo il consulente di parte di dimensioni anomale – il GUP ha riportato le affermazioni dei periti secondo i quali il peso di 420 g., rilevato in sede di autopsia, era possibile nell’adulto che intraprende determinate attività lavorative e/o sportive oppure poteva essere dipeso dal fatto che il cuore era stato pesato prima della completa apertura.

In questa prospettiva, l’esecuzione di un esame radiologico del torace non avrebbe consentito di rilevare alcunché di patologico.

La sentenza affermava, altresì, che la sintomatologia presente nel paziente non era, contrariamente a quanto sostenuto dal consulente delle parti civili, univocamente riferibile ad uno scompenso cardiaco e che la condotta professionale del sanitario risultava rispettosa delle indicazioni delle Linee guida ESC 2012, tali da non condurre come obbligatoria l’effettuazione dell’ecocardiogramma, considerato un esame di secondo livello. In ogni caso, non poteva essere affermato che l’effettuazione di tale esame avrebbe consentito di rilevare la presenza di una miocardite in atto. La posizione del sanitario doveva trovare inquadramento nella L. n. 189 del 2012, art. 3, potendosi al massimo configurare un’ipotesi di colpa lieve, rispetto al mancato approfondimento strumentale, come tale penalmente irrilevante.

Ciò premesso, i ricorrenti sostenevano l’inapplicabilità della Legge Balduzzi al caso in esame, sotto due profili: il primo di carattere temporale, il secondo sul rilievo che nel caso in esame non si verteva in tema di imperizia ma di negligenza ed imprudenza.

Tali deduzioni difensive, ad avviso della Corte di Cassazione, non sono condivisibili.

Sotto il primo profilo, la giurisprudenza consolidata (v. Cass., Sez. IV, 29/1/2013, n. 16327), ha affermato che la nuova normativa ha dato luogo ad una abolitio criminis parziale degli artt. 589 e 590 c.p. (omicidio e lesioni colposi), nei confronti dei medici, avendo ristretto l’area del penalmente rilevante individuata da questi ultimi ed avendo ritagliato implicitamente due sottofattispecie, una che conserva natura penale, caratterizzata dalla colpa grave, e l’altra divenuta penalmente irrilevante, caratterizzata dalla colpa lieve.

Il parziale effetto abrogativo chiama in causa la disciplina dell’art. 2 c.p., comma 2, e quindi ha efficacia retroattiva (Cass., Sez. Unite, 26/3/2003, Giordano).

Quanto al secondo profilo, il giudizio in ordine alla colpa si è incentrato proprio sul tema delle linee guida e delle prassi terapeutiche.

Secondo la Cassazione, il giudicante si è soffermato adeguatamente sulla possibilità o meno di una diagnosi differenziale alla luce della sintomatologia presentata dal D., non apprezzando alcuna obiettiva circostanza che avrebbe dovuto condurre all’esecuzione dell’approfondimento ecocardiografico, proprio in ossequio a quanto desunto dalle Linee guida ESC 2012.

Di conseguenza, il GUP risulta avere correttamente interpretato la norma di che trattasi, secondo cui “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve”.

La norma, per come costruita e come interpretata già da Cass., Sez. IV, 24/1/2013, Pagano, appare porre un limite alla possibilità per il giudice di sancire la responsabilità del medico che abbia rispettato le linee guida e le best practices: nel senso che potrebbe pur sempre essere riconosciuta la responsabilità penale del medico per omicidio e lesioni personali che si sia attenuto ad esse, ma ciò solo allorché invece avrebbe dovuto discostarsene in ragione della peculiare situazione clinica del malato e questo non abbia fatto per colpa grave, quando cioè la necessità di discostarsi dalle linee guida era macroscopica, immediatamente riconoscibile da qualunque altro sanitario al posto dell’imputato.

È noto che per aversi colpa grave occorre che il medico si sia altamente discostato dallo standard di agire dell’ “agente modello”, avendo attenzione alle peculiarità oggettive e soggettive del caso concreto.

Così, sotto il primo profilo, non si potrà mancare di valutare la complessità, l’oscurità del quadro patologico, la difficoltà di cogliere e legare le informazioni cliniche, il grado di atipicità o novità della situazione data. Neppure si potrà trascurare la situazione nella quale il terapeuta si sia trovato ad operare: l’urgenza e l’assenza di presidi adeguati rendono infatti difficile anche ciò che astrattamente non è fuori dagli standard.

Sotto il profilo soggettivo, per determinare la misura del rimprovero, bisognerà considerare le specifiche condizioni dell’agente, cosicché, sulla base del principio secondo cui tanto più è adeguato il soggetto all’osservanza della regola tanto maggiore deve ritenersi il grado della colpa, l’inosservanza della norma terapeutica avrà un maggiore disvalore per un insigne specialista che per un comune medico generico.

In definitiva, la Cassazione non accoglie il ricorso delle parti civili, potendosi configurare la colpa grave nel caso dell’errore inescusabile, che trova origine o nella mancata applicazione delle cognizioni generali e fondamentali attinenti alla professione o nel difetto di quel minimo di abilità e perizia tecnica nell’uso dei mezzi manuali o strumentali adoperati nell’atto operatorio e che il medico deve essere sicuro di poter gestire correttamente o, infine, nella mancanza di prudenza o di diligenza, che non devono mai difettare in chi esercita la professione sanitaria (per riferimenti, Cass., Sez. IV, 27/11/2013). È situazione – scrive la Corte Suprema – che risulta esaminata motivatamente dal giudicante che fonda, semmai, in ipotesi solo la colpa lieve.