Cass. pen., Sez. IV, 10 luglio 2014, n. 30469

Queste, in sintesi, le imputazioni. Ad un medico neurologo responsabile della degenza neurologica e delle malattie neuromuscolari di un Dipartimento di Neuroscienze, si contestava di aver omesso di diagnosticare, quale diagnosi differenziale del paziente V., la sindrome di “Gullain-Barrè”, benché il predetto paziente provenisse da altra struttura ospedaliera cittadina con l’indicazione di sospetta sindrome di “Gullain-Barrè” e presentasse una serie di sintomi caratteristici di tale patologia; al sanitario si addebitava, inoltre, di aver omesso di effettuare con urgenza esami mirati e di non aver dato, al personale medico ed infermieristico che gli succedeva nella cura, le consegne idonee ad affrontare il rischio di crisi respiratorie.

Ad un medico specialista in neurologia in servizio presso lo stesso Dipartimento, si contestava di aver omesso di predisporre esami mirati a diagnosticare la malattia da cui era affetto il paziente e di aver omesso di predisporre un’adeguata sorveglianza clinico assistenziale.

Ad un infermiere professionale in servizio presso il reparto di neurologia, si contestava di aver staccato il saturimetro di propria iniziativa, nonostante l’allarme sonoro in atto, benché ciò non rientri nelle competenze del personale infermieristico; e di aver omesso di informare il medico di turno in reparto dei valori di saturazione indicati dal richiamato apparecchio.

Cosicché V., a seguito del rapido decadimento delle funzioni cardiorespiratorie, decedeva per un’insufficienza acuta cardiorespiratoria.

Il Tribunale rilevava che risultava pienamente dimostrato che il decesso del paziente fosse da ricollegare alla condotta professionale colposa dei medici che ebbero in cura V. e dell’infermiere che aveva rimosso il saturimetro.

Circa la riferibilità causale dell’evento, il Tribunale considerava che il mancato accertamento, in sede autoptica, delle cause del decesso, non impediva di formulare un ragionamento controfattuale, rispetto alle contestate condotte omissive, idonee ad impedire la verificazione dell’evento lesivo.

Il Tribunale considerava che, anche ritenendo adeguata la diagnosi effettuata dal medico, il quale aveva ritenuto improbabile che il paziente fosse affetto dalla sindrome “Gullain-Barrè”, la corretta valutazione dei sintomi indicava un rapido peggioramento del quadro clinico, con il rischio di compromissione della funzione respiratoria.

Il primo giudice osservava, poi, che la mancata valutazione del rischio respiratorio coinvolgeva, sia pure con minore intensità sotto il profilo soggettivo, anche la posizione del secondo medico, che era subentrato come medico di guardia, nel turno successivo. E rilevava che al predetto specialista risultava addebitabile la mancata valutazione delle peculiarità presentate dal caso concreto, cioè a dire il peggioramento dei valori di saturometria e l’aggravamento della disfagia.

Con riferimento alla posizione dell’infermiere, il Tribunale considerava che risultava accertato che i medici non avessero impartito disposizioni specifiche in relazione all’esigenza di monitorare il paziente, che era stato descritto come stabile. Non di meno, il giudicante qualificava come gravemente imprudente la rimozione del saturimetro, tenuto anche conto dei valori indicati dall’apparecchio.

La Corte di Appello, in riforma della sentenza del Tribunale, assolveva i due medici e l’infermiere dal reato di omicidio colposo, perché il fatto non costituisce reato, revocando le statuizioni civilistiche.

Con specifico riguardo alla posizione dell’infermiere, la Corte di Appello rilevava che costui si era trovato di fronte ad un paziente al quale era stato applicato in precedenza un saturimetro, in ordine alla cui rimozione non aveva ricevuto disposizioni. Osservava che l’iniziativa di procedere alla rimozione dell’apparecchio in presenza della segnalazione di valori di saturometria compresi tra l’84% e l’85%, poteva integrare profili di negligenza, in quanto l’infermiere mai avrebbe potuto rimuovere l’apparecchio senza aver prima interpellato il medico di guardia. Ciò posto, la Corte di merito considerava che tale condotta negligente diveniva irrilevante, rispetto al processo causale della morte, giacché non essendosi dimostrato che l’exitus fosse dipeso da una crisi respiratoria, neppure poteva affermarsi che la condotta dell’infermiere fosse causalmente rilevante.

La Corte di Cassazione, infine, annullava la sentenza della Corte d’Appello agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello.

Sin dagli anni Novanta del secolo scorso, la giurisprudenza italiana ha chiarito che l’imputazione causale dell’evento al soggetto agente richiede, secondo la teoria condizionalistica, l’individuazione della specifica legge scientifica (la legge di copertura) che disciplina – e spiega – i nessi di condizionamento tra il comportamento umano e gli eventi naturalistici, penalmente rilevanti (Cass., Sez. IV, 24/4/1991, n. 4793).

In particolare, la Corte regolatrice già aveva osservato: che la valutazione controfattuale deve avvenire applicando la legge di copertura rispetto al “singolo comportamento storico”, alla “singola situazione storica”, alla “singola conseguenza storica”, che possono “essere inseriti nello schema generale previamente ottenuto”; con la precisazione che “secondo il modello della sussunzione sotto leggi scientifiche, un antecedente può essere configurato come condizione necessaria solo a patto che esso rientri nel novero di quegli antecedenti che sulla base di una successione regolare conforme ad una legge dotata di validità scientifica – la c.d. legge generale di copertura – portano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto”.

Le Sezioni Unite, intervenute nei primi anni Duemila (11/9/2002, n. 30328), hanno quindi affermato, nel dirimere la questione che veniva agitandosi sull’impiego giudiziale delle leggi (scientifiche ovvero statistiche) di copertura, che il giudice del merito, per la ricostruzione del fatto, non può attingere a criteri di mera probabilità statistica, ma che di converso deve ricorrere alla probabilità logica, la quale consente “la verifica aggiuntiva, sulla base dell’intera evidenza disponibile, dell’attendibilità dell’impiego della legge statistica per il singolo evento e della persuasiva e razionale credibilità dell’accertamento giudiziale”.

La Corte ha precisato che il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerta che immaginandosi come realizzata la condotta doverosa l’evento hic et nunc non si sarebbe verificato; che non è consentito il ricorso meccanicistico al coefficiente probabilistico espresso dalla legge di copertura; e che il giudice può addivenire all’affermazione di responsabilità penale solo nel caso in cui pervenga alla conclusione, con alto grado di credibilità razionale, quindi alla certezza processuale, che la condotta dell’imputato sia stata condizione necessaria dell’evento.

Non solo: per affermare che la condotta dell’agente sia condizione necessaria dell’evento, la cornice nomologica censita dal giudice deve essere tale da superare il ragionevole dubbio, fondato su elementi di insufficienza, contraddittorietà o incertezza del riscontro probatorio.

Si è altresì osservato che, nella verifica dell’imputazione causale dell’evento occorre, in realtà, dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato, ove il giudice si interroga su ciò che sarebbe accaduto, se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta.

Del resto, la Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che il giudice di merito deve analizzare la condotta (attiva od omissiva) colposa addebitata al sanitario, per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, rispetto agli specifici termini di fatto della vicenda, l’evento lesivo sarebbe stato evitato “al di là di ogni ragionevole dubbio” (Cass., Sez. IV, 8/11/12, n. 43459).

Il principio di diritto è pertanto il seguente: nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose ascritte all’esercente la professione sanitaria, il ragionamento controfattuale deve essere sviluppato dal giudice di merito in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente od altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l’evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale.

Nel caso che ci occupa, la sequenza fenomenologica scolpita dal tenore delle imputazioni evidenzia che ai sanitari che presero in carico V. non si rimprovera tanto il (mancato) gesto terapeutico, rispetto alla specifica patologia che affliggeva il malato, quanto il fatto, secondo le specifiche condotte e nelle diverse qualità, di avere sottovalutato gli indici di criticità presenti nel quadro clinico del paziente: segnatamente, agli imputati si addebita di non aver adottato un sistema di controlli che avrebbe consentito di fronteggiare il prevedibile aggravamento del deficit respiratorio. Altrimenti detto, le condotte salvifiche attese – in disparte gli specifici rilievi afferenti alla posizione dell’infermiere, al quale si contesta di avere addirittura assunto l’iniziativa di disattivare l’unico sistema di monitoraggio in atto, senza avvisare il medico di turno – riguardano la gestione del paziente, sin dal momento della sua accettazione; in particolare, la scelta di non disporre il ricovero in un reparto che garantisse un regime di assistenza adeguato, l’omessa predisposizione di un sistema di monitoraggio costante dei parametri vitali e la mancata attuazione della dovuta sorveglianza clinico-assistenziale. Queste sono le condotte omissive che vengono indicate come antecedente causale rispetto alla morte del paziente, atteso che la crisi respiratoria, con esito letale, secondo i termini dell’accusa avrebbe potuto essere utilmente fronteggiata.

Conclusivamente, ad avviso della Cassazione la Corte di Appello ha ritenuto che il mancato accertamento della natura della patologia che affliggeva il paziente impedisse di selezionare le condotte attese e di valutarle sul piano causale, sviluppando un ragionamento non conducente rispetto ai termini di fatto delle contestazioni; gli addebiti, invero, concernevano il diverso profilo fenomenologico, relativo alla possibile utile gestione del malato, sotto l’aspetto della vigilanza assistenziale, posto che il quadro clinico evidenziava l’ingravescente compromissione di specifici parametri vitali.

Sussiste in definitiva il nesso di causalità tra l’omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l’evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva (Cass., Sez. IV, 24/4/13, n. 18573).