Cass. pen., Sez. IV, 7 ottobre 2013, n. 41397

Una donna veniva ricoverata al Pronto Soccorso intorno alla mezzanotte in arresto respiratorio e veniva assistita dal medico in servizio in quel reparto. Dopo circa un’ora si apprendeva che la stessa aveva assunto un rilevante quantitativo di metadone nel tentativo di suicidarsi. Gli interventi terapeutici del medico e del rianimatore facevano fronte all’affezione anche grazie alla somministrazione di Narcan. Intorno alle 3.30 della notte la situazione era stabilizzata: cosciente, lucida, orientata, respiro normale, emodinamica stabile. La signora veniva quindi trasferita nel reparto di psichiatria (ove veniva assistita da una dottoressa e da tre infermieri), e moriva alle ore 7.00 per arresto cardiocircolatorio seguito ad insufficienza respiratoria.

Il Tribunale ha assolto tutti gli imputati dal reato di omicidio colposo.

Secondo la Corte d’Appello (che ha affermato la responsabilità degli imputati in ordine al reato predetto), invece, dalle valutazioni dei consulenti è emerso che la condizione della donna era “precaria” e vi era rischio di recidiva. Pertanto, sarebbe stato necessario il ricovero in “ambiente protetto sotto costante monitoraggio” anche strumentale, e non in psichiatria.

L’addebito viene mosso non solo al medico di Pronto Soccorso, ma anche al rianimatore, che non suggerì la necessità di ricovero in reparto maggiormente qualificato.

Ai due medici la Corte ha mosso altresì l’addebito di non aver dato indicazioni nel senso che la degente fosse assistita senza soluzione di continuità dal personale medico e infermieristico, in considerazione della sua peculiare situazione. Si è aggiunto che dai protocolli sanitari emerge che tale ricovero protetto si imponeva e che una tempestiva somministrazione di ulteriore dose di Narcan avrebbe evitato la morte.

Quanto ai tre infermieri, la Corte d’Appello ha individuato l’addebito colposo di non aver controllato la paziente nel periodo tra le ore 5.00 (epoca in cui la paziente riferiva di star bene) e le ore 7.00, momento della morte; mentre un’assidua vigilanza sarebbe stata richiesta dalla peculiare, grave condizione della donna. Tale omissione avrebbe determinato la mancata tempestiva terapia e avrebbe causato l’evento letale.

La pronunzia ha aggiunto che la dottoressa aveva istruito oralmente gli infermieri in ordine alla necessità di assicurare appropriata assistenza. Ne discenderebbe che i tre infermieri, “che ben sapevano e dovevano conoscere diagnosi e cure in corso”, avrebbero dovuto continuare, anche dopo l’allontanamento della dottoressa, il costante controllo, anche visivo, della donna. Tale controllo sarebbe invece mancato e avrebbe avuto decisivo rilievo causale.

Ricorrevano per cassazione gli imputati.

Ad avviso della Suprema Corte, le ragioni dell’assenza di alcuna responsabilità in capo ai sanitari che ebbero in cura la donna presso il Pronto Soccorso sono nitidamente espresse nella sentenza del Tribunale: la paziente si trovava in una situazione gravissima a seguito dell’assunzione di metadone, che venne fronteggiata in modo completamente appropriato, anche grazie alla somministrazione dell’antidoto Narcan. Tale ultima sostanza ha un effetto che si protrae per un tempo inferiore a quello del metadone, con la conseguenza che il paziente va monitorato ai fini della tempestiva somministrazione di ulteriori dosi dello stesso Narcan, all’occorrenza. Tali metodiche furono poste in essere correttamente, tanto che la donna, intorno alle 3.00 del mattino, appariva in buone condizioni e ne venne disposto il ricovero in psichiatria, mentre era ancora in corso la somministrazione di Narcan attraverso una flebo. In tale decisione non si scorge alcun errore. In primo luogo, si osserva, il reparto di psichiatria era il più idoneo a fronteggiare la patologia, anche in considerazione del fatto che un reparto di rianimazione non esisteva. Inoltre e soprattutto, le buone condizioni della paziente (i parametri vitali erano regolari) rendevano del tutto adeguato il reparto di psichiatria, che aveva personale competente ad assistere la donna con continuità. Tale argomentazione viene corroborata sulla base della considerazione che la degente fu assistita fino alle 5.00 del mattino, quando era presente in reparto la dottoressa.

Quanto poi ai tre infermieri, attesa la prescrizione del reato, la loro condotta deve essere – secondo la Cassazione – considerata solo per ciò che attiene alle statuizioni civili.

Infatti, pur ipotizzando una condotta disattenta di tale personale, non vi è prova certa che l’omissione abbia avuto un concreto ruolo causale; non potendosi escludere che l’arresto circolatorio sia intervenuto in modo improvviso, irreversibile e tale da non potere essere fronteggiato con successo.

In conclusione, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti dei due medici di Pronto Soccorso per non aver commesso il fatto. Ha annullato senza rinvio, quanto alle statuizioni penali, la medesima sentenza nei confronti dei tre infermieri, perché il reato loro ascritto è estinto per prescrizione. Ha infine annullato la ridetta sentenza, quanto alle statuizioni civili, nei confronti dei tre infermieri, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d’appello.