Cass. pen., Sez. IV, 17 luglio 2015, n. 31244

A cura del Comitato Tecnico scientifico

In un caso di omicidio colposo, all’imputata era stata originariamente contestata la violazione dei tradizionali parametri della colpa generica per avere omesso di valutare correttamente, in qualità di ostetrica in servizio presso un reparto di ostetricia e ginecologia, i dati del tracciato cardiotocografico relativo ad una paziente, così omettendo di richiedere tempestivamente l’intervento del personale medico al fine di procedere con urgenza al parto cesareo, contestualmente disponendo la diminuzione della somministrazione di ossitocina.

Per effetto di tale condotta, all’imputata era stata ascritta la causazione del decesso del figlio della paziente che, a seguito delle lesioni riportate alla nascita (consistite in encefalopatia ipossico-schemica neonatale conseguente ad asfissia perinatale), era deceduto all’età di quattro anni per insufficienza respiratoria riconducibile alla suddetta patologia perinatale.

Sul punto, i giudici hanno attestato come, anche nell’ambito di un travaglio di parto definibile “a rischio”, siano da ritenere persistenti i profili di responsabilità connessi agli obblighi gravanti sull’ostetrica, siccome in ogni caso legati alla prestazione di un’assistenza continuativa e adeguata alla paziente nella fase del travaglio pur coordinato dalla figura del medico di guardia; prestazione implicante la pronta rilevazione di ogni situazione di potenziale sofferenza per la madre e per il nascituro, con l’obbligo della relativa immediata segnalazione al medico competente.

Si è quindi evidenziato come, ove il medico di guardia fosse stato tempestivamente allertato personalmente dall’imputata, quest’ultima sarebbe stata in grado di rappresentare più efficacemente al medico i segnali di criticità del tracciato, propiziandone in termini più concreti l’intervento impeditivo dell’asfissia prenatale del nascituro.

Quanto alla valutazione della rilevanza causale della condotta omissiva contestata all’imputata, ha osservato la Cassazione come, con riguardo al tema della c.d. causalità della colpa, vale richiamare i principi generalmente condivisi in tema di colpa c.d. “relazionale”, ossia là dove la ricostruzione del comportamento alternativo lecito sia condotta (non già in un contesto monosoggettivo, bensì) nella prospettiva dell’interazione (e dunque della “relazione”) tra due o più soggetti.

Le esemplificazioni di scuola alludono, al riguardo, a tutte quelle situazioni in cui il comportamento alternativo lecito avrebbe dovuto tradursi nella sollecitazione, nella segnalazione o, comunque, nel coinvolgimento di ulteriori soggetti, che a loro volta avrebbero dovuto attivarsi, in base a doveri “divisi” o “comuni” (quindi operando in via autonoma ovvero interagendo con altri) secondo le prescrizioni di ulteriori regole cautelari.

In tali casi, l’ipotetico comportamento alternativo lecito non incide (per definizione) in maniera diretta su fattori biologici, meccanici, o comunque naturali, proiettandosi in una duplice dinamica ipotetica, destinata a tener conto, sia delle (ipotetiche) reazioni comportamentali dei soggetti che avrebbero dovuto interagire, sia degli (ipotetici) effetti concreti delle condotte che quei medesimi soggetti avrebbero dovuto realizzare.

Così, l’ascrizione normativa dell’evento colposo, in quanto concretamente evitabile, non poggerà sulla prospettazione ipotetica di decorsi causali governati da leggi scientifiche (nessuna legge scientifica potendo spiegare come si sarebbero comportati altri soggetti, chiamati ad interagire nel caso concreto), bensì assumendo che il soggetto che sarebbe stato attivato dal comportamento alternativo lecito avrebbe agito correttamente.

Tale valutazione dovrà essere condotta secondo parametri standardizzati (evocando l’agente “modello”), con la conseguente sostanziale irrilevanza del possibile dubbio circa l’inutilità o addirittura la dannosità in concreto del (negligente) apporto altrui.

La Cassazione ha peraltro annullato senza rinvio la sentenza di condanna impugnata per essere, il reato ascritto all’imputata, estinto per prescrizione; ma ha confermato le statuizioni civili (risarcimento del danno in favore della parte civile costituita).