Cass. pen., Sez. I, 11 giugno 2015, n. 24704

 

Il Tribunale assolveva il titolare e il direttore sanitario di uno studio odontoiatrico – laboratorio odontotecnico dal delitto di tentata somministrazione di medicinali guasti e dalla contravvenzione di gestione non autorizzata di una struttura privata in cui si praticano attività sanitarie.

Nel premettere che la contestazione scaturiva da un sopralluogo eseguito dai Carabinieri del N.A.S., che avevano accertato l’esistenza, in un immobile di pertinenza degli imputati, di una struttura sanitaria regolarmente in attività senza che fosse stata rilasciata la prescritta autorizzazione regionale, nonché la detenzione, all’interno dei due locali adibiti a studio odontoiatrico, di specialità medicinali ad uso medico scadute (in parte riposte su di un tavolo mobile e nel cassetto dello stesso, in parte in un armadio a vetri), il giudicante riteneva che l’istruttoria dibattimentale aveva permesso di chiarire che da parte dei due professionisti inquisiti non vi era stata alcuna volontà di eludere in modo consapevole e cosciente le norme che si reputavano da essi violate (ovvero gli artt. 56 e 443 c.p. e l’art. 193 R.D. n. 1265 del 1934), ciò desumendosi in particolare: a) dalla circostanza che più volte gli imputati avevano inutilmente sollecitato il rilascio delle prescritte autorizzazioni ai vari enti competenti, e ciò almeno dieci anni prima dell’effettivo suo rilascio, poi sopravvenuto; b) che i farmaci asseritamente scaduti si trovavano in zona diversa da quella di utilizzo e che la loro innocuità non era sta posta in dubbio da alcuna indagine di carattere scientifico.

La Corte d’Appello riformava la sentenza emessa dal primo giudice, dichiarando gli imputati colpevoli dei reati loro ascrittigli, fondando la propria decisione:

quanto alla condanna per il reato contravvenzionale, sul preliminare rilievo che la gestione di una struttura privata, in cui si praticano attività sanitarie, presuppone necessariamente il preventivo ottenimento dell’autorizzazione sanitaria di cui all’art. 193 R.D. n. 1265 del 1934, il cui rilascio postumo non esclude la sussistenza del reato e sull’ulteriore considerazione che la presentazione da parte degli imputati di reiterate richieste di autorizzazione avanzate con esito negativo, costituiva una circostanza che non poteva essere utilmente invocata per escludere la sussistenza dell’elemento psicologico del reato, in quanto, anche a voler prescindere dalla natura colposa dell’elemento soggettivo richiesto per l’integrazione della fattispecie, essa era comunque dimostrativa della consapevolezza dell’obbligo di svolgere l’attività in questione in regime di autorizzazione preventiva;

quanto alla condanna per il delitto, sul preliminare rilievo che lo stesso deve ritenersi un reato di pericolo volto a sanzionare condotte (detenere, porre in commercio, somministrare) che rendono probabile, o almeno possibile, la concreta utilizzazione del medicinale guasto e sulle seguenti ulteriori considerazioni: a) che la collocazione dei farmaci in una zona diversa da quella di utilizzazione, deve ritenersi una circostanza indimostrata ed anzi smentita dalle risultanze ispettive e dichiarative, da cui era emersa la collocazione degli stessi in ambienti di ordinario accesso ed in posizione di agevole utilizzo per l’esercizio delle attività di che trattasi; b) che la quantità e la collocazione dei farmaci (alcuni dei quali posti in cassetti ubicati nelle vicinanze delle poltrone in cui sedevano i pazienti) nonché la veste professionale degli imputati, offrono elementi dai quali poter desumere, con ragionevole certezza, che gli stessi fossero a conoscenza della loro scadenza ed animati dalla volontà di detenerli; c) che non risulta sia stata intrapresa alcuna attività di smaltimento dei farmaci scaduti, che non erano custoditi, oltretutto, in maniera separata dai farmaci in corso di validità e non recavano alcun cartello con una scritta che indicasse che fossero scaduti; d) che deve ritenersi del tutto irrilevante la circostanza che non sia stata espletata alcuna attività scientifica volta a verificare la pericolosità dei farmaci detenuti, fondandosi l’accertamento del reato sulla presunzione di pericolosità dei farmaci, desumibile dalla previsione di un limite temporale per il loro impiego, così come irrilevante deve ritenersi l’accertamento sulla durata della detenzione del farmaco; e) che la condotta contestata va riqualificata come integrante l’ipotesi della fattispecie consumata e non già di quella tentata, trattandosi di reato di pericolo, integrato da qualsiasi comportamento che renda probabile o possibile la concreta utilizzazione del medicinale guasto, senza che sia necessario provare l’effettiva somministrazione dello stesso.

Gli imputati proponevano impugnazione avverso la sentenza di secondo grado.

La Corte di Cassazione sostiene che quella di Appello, nel riformare la decisione di primo grado e condannare gli imputati per il delitto (consumato) punito dall’art. 443 c.p., non ha adeguatamente valutato che, nel caso di specie, ai ricorrenti era stato contestato non già di aver somministrato dei farmaci imperfetti, in quanto scaduti di validità, bensì di aver detenuto gli stessi nei locali di uno studio odontoiatrico – laboratorio odontotecnico (e segnatamente in un armadietto e in un cassetto chiusi a chiave), in vista di una possibile loro somministrazione ai pazienti della propria struttura sanitaria.

Orbene, se pure in alcuni risalenti arresti (Cass., Sez. IV, n. 11040/1987; Cass., Sez. I, n. 7476/1994) la Cassazione, investita della questione se nella fattispecie delineata nell’art. 443 c.p., che punisce il fatto di chi “detiene per il commercio, pone in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti”, debba ricadere soltanto la somministrazione di medicinali imperfetti o se in essa possa, invece, comprendersi anche la detenzione per la somministrazione, aveva aderito alla linea interpretativa più ampia, affermando che la detenzione di medicinali guasti o imperfetti per la somministrazione cade sotto la previsione di cui all’art. 443 c.p., non avendo nessun fondamento la distinzione fra detenzione per il commercio e detenzione per la somministrazione, per la ragione che sia l’una che l’altra rendono probabile, o quanto meno possibile, l’utilizzazione concreta del medicinale guasto o imperfetto a scopo terapeutico, che il legislatore ha inteso evitare e prevenire con la norma incriminatrice citata, tale indirizzo interpretativo però, a partire da Cass., Sez. I, n. 4140/1995 è stato sottoposto a serrata critica e motivatamente disatteso anche in successive pronunce (Cass., Sez. I, n. 999/1998; Cass., Sez. I, n. 3198/1999; Cass., Sez. IV, n. 9359/2000).

In particolare nella richiamata sentenza n. 4140 del 1995, muovendo dalla premessa che l’art. 443 c.p. punisce “chi detiene per il commercio, pone in commercio o somministra medicinali guasti o imperfetti”, si evidenzia lucidamente come, dinanzi a tale inequivoco elemento testuale, non può assimilarsi alla detenzione per il commercio la detenzione per la somministrazione, senza ricorrere all’applicazione analogica della fattispecie incriminatrice, con violazione dei principi di legalità e di tassatività della norma penale. Ne consegue che la detenzione per la somministrazione di medicinali guasti o imperfetti non integra il reato consumato previsto dall’art. 443 c.p., ma ben può concretare, in tesi, un’ipotesi di tentativo punibile ex art. 56 c.p. quando costituisca atto idoneo diretto in modo non equivoco alla somministrazione e sia accompagnata dalla consapevolezza del guasto o della imperfezione del medicinale.

Ciò posto, considerato che il delitto tentato è reato strutturalmente doloso e che in giurisprudenza si esclude finanche la configurabilità di un tentativo commesso con dolo eventuale, in assenza di concreti elementi dimostrativi che i ricorrenti fossero effettivamente consapevoli che alcuni dei medicinali detenuti nella struttura sanitaria fossero scaduti, deve allora escludersi – secondo la Cassazione – che detta detenzione – dovuta a colpa (negligenza) – possa essere punita a titolo di tentativo.

Quanto al reato di cui all’art. 193 R.D. n. 1265 del 1934, il Collegio ne ha rilevato l’estinzione per prescrizione.

In conclusione, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza impugnata relativamente alla contravvenzione perché estinta per prescrizione e relativamente al delitto, qualificato il fatto come violazione degli artt. 56 e 443 c.p., perché il fatto non costituisce reato.