Cass. pen., Sez. VI, 27 novembre 2014, n. 49537

Due infermieri professionali venivano dichiarati responsabili, in primo grado, del reato di rifiuto di atti d’ufficio (art. 328 co. 1 c.p.), perché, in concorso fra loro, in servizio presso il reparto di psichiatria, indebitamente rifiutavano di eseguire il seguente atto del loro ufficio, omettendo di prestare assistenza sanitaria a una paziente, ovvero di chiamare il medico di guardia affinché valutasse le patologie sofferte dalla predetta, sia in relazione alla forte e progressiva emicrania di cui soffriva e di cui si era esplicitamente lamentata, sia in relazione alla caduta, causata da un capogiro, in esito alla quale subiva una contusione dell’arcata sopraccigliare; comportamenti che, per ragione di sanità, dovevano essere compiuti senza ritardo.

Per la Corte d’appello, che ha ribadito il giudizio di responsabilità, i due infermieri si sono rifiutati indebitamente di chiamare il medico reperibile e hanno volontariamente “lasciato cadere nel vuoto” le richieste loro rivolte dalla persona offesa, proprio in quanto la consideravano – probabilmente anche a causa di attriti verificatisi nei giorni precedenti – un soggetto fastidioso, “piantagrane”, il cui unico intento era quello di provocarli.

In tale ambito la Corte: a) ha ribadito lo status e la qualità di incaricato di un pubblico servizio degli infermieri professionali, poiché la tutela dei malati ricoverati, compete non solo ai medici ma anche agli infermieri, i quali ultimi, negli ospedali, hanno una funzione di “garanzia e svolgono un compito cautelare essenziale nella salvaguardia del paziente” (Cass. pen. n. 24573/2011); b) ha precisato che, nel quadro di tale attività, di essenziale cautela e controllo nel decorso clinico della malattia, la situazione di dubbio, quale quella in questione (persona spedalizzata ma non in terapia farmacologica, colpita da forte emicrania accompagnata da vomito, perdita di equilibrio e caduta a terra, determinante una contusione all’arcata sopraccigliare), imponeva l’intervento del medico di turno, con la conseguenza che il rifiuto alla chiamata del medico di guardia ha integrato il delitto contestato.

La Corte di Cassazione ha infine dichiarato i ricorsi dei due imputati in parte inammissibili e in parte manifestamente infondati.

Viene subito chiarita la qualità di incaricato di pubblico servizio attribuibile, per risalente ed immodificata giurisprudenza, all’infermiere (Cass. pen. n. 2996/1996), considerato che la circostanza che la disciplina del rapporto di lavoro dei dipendenti delle U.S.L. sia retta dalle norme del codice civile non vale a rendere privatistica la natura delle prestazioni dei suddetti soggetti, le quali sono inserite nell’attività, certamente di natura pubblica, del servizio sanitario per tutte quelle persone, infermieri e anche operatori tecnici addetti all’assistenza, con rapporto diretto e personale, del malato (Cass. pen. n. 34359/2010).

Quanto al delitto di rifiuto di atti d’ufficio, la Corte ha spiegato che rientra nel proprium dell’infermiere professionale quello di controllare il decorso della malattia o convalescenza del paziente ricoverato, fungendo da “necessario tramite con il medico del reparto” a fronte di situazioni, come quella di specie, suscettibili di spiegazioni plurime in termini di ragionevoli sviluppi patologici, tali comunque da esigere l’intervento di mediazione e interpretazione professionale del medico del reparto.

Il rifiuto di provvedere in tal senso integra la materialità e la soggettività richiesta dalla norma la quale, contrariamente all’assunto difensivo, non esige affatto che l’atto omesso o ritardato produca danno al paziente: il delitto in parola, infatti, è un reato di pericolo la cui previsione sanziona il rifiuto, non già di un atto urgente, bensì di un “atto dovuto che deve essere compiuto senza ritardo”, ossia con tempestività, in modo da conseguire gli effetti che gli sono propri in relazione al bene oggetto di tutela, indipendentemente dal nocumento che in concreto possa derivarne (Cass. pen. n. 13519/2009).

In conclusione, viene ribadita la regola che il rifiuto, l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, per essere giuridicamente rilevante e cadere sotto la sanzione penale, non deve necessariamente cagionare un danno materiale alla pubblica amministrazione o ledere interessi legittimi dei privati, essendo sufficiente il pregiudizio all’ufficio o al servizio, insito nella condotta illegittima del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio; viene inoltre ribadito che la condotta di rifiuto si verifica non solo a fronte di una richiesta o di un ordine, ma anche quando, come nella specie, a prescindere dalla pressante invocazione di assistenza e cura della persona ricoverata, sussista un’urgenza sostanziale impositiva del compimento dell’atto (Cass. pen. n. 29361/2014).